Informazione online, esiste un confine tra libera circolazione e sfruttamento del lavoro altrui?

Il disegno di legge presentato dal Senatore Butti è orientato alla tutela del principio di libertà d'informazione

Esiste un confine entro il quale la libera condivisione delle notizie – ché, per altro, è l’essenza stessa della Rete – possa considerarsi lecito? Elementare, Watson! Quel confine esiste eccome, ed è meno sottile di quanto si possa immaginare, forse banale, se non lapalissiano, e sta tutto nel principio (sacrosanto) che non si dovrebbe lucrare sul lavoro altrui. Mi spiego, innanzitutto sgombrando il campo da fraintendimenti di sorta: grazie alla Rete e, in particolare, a social networks come Facebook e Twitter, il principio di condivisione ha fatto sì che le news circolino in tempo reale, senza filtri. Ritengo che questa sia tra le più grandi conquiste del nostro tempo, perché ha cambiato il nostro stile di vita ed il modo di fare informazione. Ci avete fatto caso? Una volta, per sapere cosa pensava la gente in merito ad una notizia, i giornalisti dovevano attaccarsi al telefono o andare per le strade a chiedere un’opinione mentre oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, interi articoli vengono dedicati a quello che pensa il “Popolo della Rete”, ovvero ad i commenti su Facebook o ai singoli tweet. Il bello è che questo principio vale tanto per il cosiddetto “uomo comune”, quanto per il tycoon o per l’uomo politico di spicco. L’ultimo esempio lo abbiamo avuto qualche giorno fa quando, Pierferdinando Casini, ha postato sul suo profilo di Twitter una foto dell’ABC (Alfano, Bersani, Casini) scattata qualche istante prima a Palazzo Chigi, durante il vertice con Monti per la discussione della riforma del lavoro. Beh, la sera stessa non c’è stato telegiornale o sito internet ed giorno dopo quotidiano che non abbia riportato quella foto. È il segno dei tempi, anzi, del nostro tempo, come dicevo prima. Ciò che conta, e che paga, sono la qualità, l’attendibilità e l’originalità della notizia. La capacità, insomma, di stare sul pezzo. Basta buttare l’occhio ad esempi virtuosi che arrivano da oltreoceano, come l’ormai consolidato (tanto da essere stato acquisito da Aol) Huffington Post, blog molto influente, perfino con gli spin doctor di Obama ed il più recente BuzzFeed, diretto da Ben Smith che ha  definito i blog di vecchia concezione “vecchi (appunto, ndr) e scricchiolanti”. Ovvio che tutto questo abbia un costo, ed è proprio qui che voglio andare a parare. Infatti, proprio grazie ad i social networks, il concetto del “tutto fa brodo” (spazzatura compresa) è definitivamente tramontato in luogo, come dicevo poc’anzi, della qualità delle notizie. Questo significa lavoro e, quindi, presuppone dei costi: ed una redazione con tutti gli annessi e connessi è un gran bel costo. Come si puo’, allora, anche solo pensare di far passare il principio secondo cui chi sfrutta, per fini di lucro, il lavoro altrui possa essere messo sullo stesso piano di chi condivide o commenta una notizia per semplice interesse? Appare del tutto evidente che, per affrontare l’argomento con un piglio obiettivo e scevro da pregiudizi, si debba partire da una netta distinzione tra chi esprime liberamente la propria opinione commentando un articolo sul suo profilo o postandolo (citando la fonte) sul suo blog personale e chi, invece, utilizza quello stesso contenuto per guadagnarci in termini economici. Converrete con me che non è la stessa cosa. Infatti, è proprio questa la direzione in cui è orientato il disegno di legge recentemente presentato dal Sen. Alessio Butti, con il quale s’intende stabilire il principio per cui, chiunque intenda utilizzare contenuti editoriali al fine di realizzare un profitto, debba preventivamente raggiungere un accordo economico con il legittimo proprietario di quel contenuto. Nulla a che vedere con censure o limitazioni della libertà di stampa ma, al contrario, la volontà di preservare il diritto sacrosanto di poter fare informazione perché, parliamoci chiaro, le redazioni non vivono d’aria e, quindi, da qui a poco si vedrebbero costrette a prendere contromisure in proprio. Quali? Semplice, news a pagamento per tutti e, perciò, non più liberamente accessibili. Non è forse meglio che, a pagare, sia soltanto chi ne trae profitto?